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Un grazie che vale per tutti

L’ultimo giovedì del mese di novembre ogni anno negli Stati Uniti si festeggia il ‘giorno del Ringraziamento’, il Thanksgiving Day. La maggior parte di noi ha avuto modo di conoscere questa ricorrenza attraverso la cinematografia statunitense, che spesso propone tale situazione all’interno delle storie che racconta utilizzandola come cornice tanto quanto in Italia, ma anche altrove, il Natale.

È il periodo dell’anno in cui si intensificano i ritrovi con i propri cari e si sente la necessità – o l’obbligatorietà – di ritrovarsi e stare insieme. Abbiamo assistito divertiti al menù tipico che la contraddistingue, e anche un po’ perplessi per la rilevanza che a essa viene data, surclassando spesso il Natale la cui supremazia è per noi praticamente scontata.

Forse non molti sono a conoscenza dell’origine che sta alla base di questa festa. Quando i Padri Pellegrini di fede calvinista fuggirono dalla Gran Bretagna e sbarcarono nel nord America, si trovarono davanti a un ambiente molto diverso, e inizialmente ebbero grossi problemi di sopravvivenza. Solo grazie all’aiuto dei nativi capirono che dovevano cambiare le colture e gli allevamenti per ottenere il massimo da quei nuovi territori. Quando sembrò che il peggio fosse passato, e che le nuove abitudini cominciassero a dare buoni frutti, decisero di ringraziare Dio – e non i nativi – per questi doni.

Dal XVIII secolo, con George Washington, e ancor di più nel XIX secolo, la festività si estese a quasi tutti gli stati nord-americani.

Nel menù tradizionale sono presenti i cibi simbolo delle nuove colture intraprese dai Padri Pellegrini, vale a dire patate dolci, mais, zucca, salsa di mirtilli rossi e ovviamente il tacchino.

Per quanto mi riguarda, non sono stato in grado di comprendere appieno il significato di questa celebrazione finché non ho avuto modo di viverla di persona. Mi trovavo in vacanza negli Stati Uniti, e proprio in quei giorni ero ospite da amici nell’affascinante Palm Springs, stato della California. Avevano invitato le persone a loro più care, le quali contribuirono a un menù molto ricco per un pranzo che si protrasse per l’intera giornata. In uno dei momenti più intimi e intensi, ognuno fu sollecitato a esprimere un ringraziamento, e solo allora mi fu spiegato che la persona poteva rivolgersi a un’entità religiosa qualsiasi, ma anche a una o più persone, a se stesso o anche al destino. Insomma, era l’occasione per ringraziare chi o cosa volesse.

Ho capito che come nessun’altra ricorrenza popolare, questa è del tutto trasversale e inclusiva, dato che nel sentire contemporaneo si rivolge alle persone lasciandole assolutamente libere di esprimersi. Un’occasione di dirsi felici per ciò che la propria vita concede, e per farlo insieme a chi si ama, la famiglia oppure gli amici.

Al contrario di quanto è sempre accaduto, in questo caso da una tradizione nata per motivi religiosi si è passati a una celebrazione che coinvolge anche i non credenti. Questa mi è sembrata una cosa molto bella e importante, un modo per rendere tutti veramente uguali e uniti. Ho cominciato a pensare che dovrebbe essere onorata da tutti, ovunque, perché non c’è nulla di più bello che poter esprimere se stessi e farlo con chi si ama. Quale che sia quello che ti rende felice, che per te è importante. Te stesso, gli altri, l’incarnazione della spiritualità che ti fa stare bene. Il ringraziamento che ti nasce spontaneo sulle labbra, e che viene dal cuore.

 

Roberto Fustini

Ig @fustinir Fb Roberto Fustini scrittore

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